Scroll Top

Le estasi di Venafro

PADRE PIO VENAFRO

La prima foto di fra Pio

Nell’ottobre del 1911 Padre Benedetto accompagna il giovane cappuccino da uno specialista a Napoli, «per sentire dalla scienza se poteva stare fuori dell’aria natia con la speranza di non peggiorare». Il luminare è il famoso professore Antonio Cardarelli, considerato un’autorità in campo medico, che visita, resta allibito e consiglia di condurre l’ammalato nel convento più vicino, perché ha i giorni contati.

Quella di Cardarelli non è una diagnosi. È una sentenza inappellabile. Una condanna a morte senza speranza di grazia. Padre Benedetto resta ammutolito. Mentre accompagna l’ammalato fuori dalla porta dello studio medico pensa di portarlo a morire nel convento di Venafro, in provincia di Isernia. Ma prima di intraprendere il viaggio insieme a lui, lo conduce da un fotografo di Napoli per fargli fare una foto, in modo da poter conservare almeno un ricordo del giovane frate in fin di vita.

Giunti nella cittadina molisana, il Provinciale affida padre Pio alle premurose cure del suo amico padre Agostino da San Marco in Lamis, che in quel convento insegna sacra eloquenza.

Il luminare si era sbagliato, ma solo in parte. Nella nuova cella il giovane frate non muore, ma le sue condizioni peggiorano notevolmente. Non riesce neppure a mangiare. Lo scarso cibo che ingerisce di tanto in tanto, lo vomita subito dopo. Lo stomaco trattiene solo la santa Eucaristia, che padre Agostino deve portargli al letto, da dove l’infermo non può ad alzarsi.

Il superiore, padre Evangelista, decide di farlo visitare nuovamente a Napoli e lo accompagna personalmente. Ma i medici possono solo ammettere che un quadro clinico così complesso non l’hanno mai visto.

L’intensa sofferenza è, però, compensata da altrettanto straordinarie esperienze mistiche. Ne sono testimoni in tanti. Compresi quei giovani sacerdoti cappuccini, a Venafro per imparare l’eloquenza, che spesso accompagnano padre Agostino quando porta la Comunione all’ammalato. Pochi minuti dopo aver accolto l’Ostia, padre Pio spalanca gli occhi e, «senza mai batter palpebra» li tiene fissi su un punto della stanza dove non c’è assolutamente nulla. Il suo volto diventa rosso come dopo un intenso sforzo. Rimane «così per oltre mezz’ora». A volte accenna a qualche sorriso. A volte si rattrista. Ogni tanto prega a voce alta, quasi urlando. Si rivolge a Gesù con tono familiare per implorare «la conversione dei peccatori, raccomandandogli i benefattori, chiedendo pace, salvezza per tutti…». Colloqui simili avvengono anche con la «Vergine Immacolata… san Michele Arcangelo, il padre san Francesco» e altri «potenti intercessori e infallibili protettori dell’umanità».

In una circostanza è presente anche un medico, il dottor Nicola Lombardi, ritenuto bravo e dotto, chiamato da padre Agostino dal vicino paese di Pozzilli nella speranza di poter avere il parere della scienza su quei fenomeni. Il dottore prova ad avvicinare un cerino acceso a quegli occhi spalancati, e riscontra che non c’è nessuna reazione delle pupille. Ascoltando il dialogo con gli invisibili personaggi celesti, nota che non è sconnesso, ma perfettamente logico. Intanto tiene sotto controllo cuore e polso: tutto è fisiologico. Prova a chiamarlo, ma l’ammalato non scompone neppure un muscolo. Subito dopo fa lo stesso tentativo, il superiore del convento, «da fuori la cella, non facendogli sentire la voce». E, questa volta, padre Pio si sveglia, «ridendo e scherzando come mai fosse accaduto niente». È l’effetto dell’obbedienza.

Il medico ha poca scelta e mette, nero su bianco, una parola che poco ha a che fare con la scienza: «estasi». Le celesti visioni si alternano alle vessazioni e alle persecuzioni del demonio, che gli appare in tutte le forme. Anche sotto le sembianze di padre Agostino. Ma padre Pio lo smaschera ogni volta.

Di fronte a quel caso che appare senza soluzione i religiosi di Venafro non possono tacere. Il superiore, «spinto dalla coscienza» scrive al Provinciale e, non ricevendo risposta, anche al Generale dell’Ordine, per raccontare quello che accade al loro confratello che, peraltro, ultimamente «non ritiene neanche un cucchiaino d’acqua».

Padre Benedetto si lascia nuovamente commuovere e il 4 dicembre 1911 firma l’ordine per far tornare l’amato suo figliuolo nella sua famiglia d’origine. Tre giorni dopo parte per Pietrelcina, accompagnato da padre Agostino, che si trattiene anche il giorno successivo per la festa dell’Immacolata. In occasione della solennità assiste, insieme all’arciprete, alla Messa presieduta da padre Pio e non crede ai suoi occhi vedendolo cantare con pieno vigore, «come se nulla avesse sofferto» nei giorni precedenti.

L’emergenza è stata tamponata. Resta il problema di quel religioso anomalo che passa più tempo con sua madre che con i confratelli in convento.

Già prima di lasciare Venafro ha appreso che, per risolvere definitivamente la questione, il Ministro Generale è intenzionato a chiedere «il breve di secolarizzazione». In pratica padre Pio rischia di doversi togliere l’abito dei Cappuccini per diventare prete diocesano.

Quella prospettiva proprio non gli va giù. E, in una delle sue estasi avvenute nel convento molisano, se n’è lamentato direttamente con san Francesco, che gli era apparso: «Padre mio, ora mi discacci dal tuo Ordine? Per carità, fammi piuttosto morire…». Il suo interlocutore lo aveva tranquillizzato con una promessa: rimarrà «a casa con l’abito», finché lo vorrà il Signore. San Francesco mantiene la promessa. Alla lettera.

Invano l’ubbidiente fraticello prova, ancora una volta, ad accontentare il Provinciale. Rientra a Morcone nel giugno 1914. Cinque giorni dopo deve nuovamente ripartire per Pietrelcina in uno stato da far compassione.

Il caso torna nuovamente nelle mani del Generale che individua una soluzione di compromesso: chiedere alla competente Congregazione vaticana un breve ad tempus, habitu retento. Per effetto di questo atto, che viene firmato in data primo marzo 1915, il giovane cappuccino può continuare ad indossare il saio, ma la sua appartenenza all’Ordine è temporaneamente sospesa per la durata della sua malattia, per dargli la possibilità di curarsi.

Padre Pio, comunque, non la prende bene. Ritiene un’umiliazione vedersi «quasi scisso dal serafico Ordine». La soluzione non piace neppure al Provinciale, che non vuole rinunciare all’idea di far tornare quella pecorella nel suo ovile.

Solo Colui che tesse la trama della Storia e delle storie sa quando e in che modo finirà l’esilio e come, all’insaputa di tutti, l’evento risolutivo si sia già messo in moto: il 22 giugno 1913 padre Agostino aveva cominciato a chiedere al suo amico e discepolo preghiere e consigli per una nobildonna foggiana, Raffaelina Cerase, e per sua sorella Giovina. Dopo nove mesi padre Agostino aveva messo direttamente in contatto epistolare Raffaelina e padre Pio.  Nel frattempo scoppia la prima guerra mondiale.

 

Lascia un commento