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Padre Pio: “L’amore è forte al par della morte e duro al par dell’inferno”

Padre Pio scrive a Padre Agostino il 24 ottobre 1915
volto di Padre Pio

Nel 1915 Padre Pio è a Pietrelcina, costretto a vivere in famiglia e fuori dal convento, a causa di una “strana malattia“. Con una certa regolarità si confronta con i suoi padri spirituali: Padre Agostino e Padre Benedetto entrambi da San Marco in Lamis.

Il 27 ottobre Padre Pio racconta a padre Agostino il rammarico dell’anima viatrice: “Chi è più misero di questa creatura?”. Il giovane cappuccino desidera il giorno in cui “andrà naufrago in quel mare immenso dell’eterna verità”.

Lettera di Padre Pio scritta il 27 ottobre 1915 a Padre Agostino da San Marco in Lamis (Epistolario 1)

“Quanto grandemente infelice si riconosce l’anima viatrice che con tutte le sue forze procura di crescere nelle vie del divino amore! Che orribile contrasto ella va esperimentando di continuo in se stessa! Io non so se il Signore vi abbia mai fatto esperimentare quello che fa sentire da molto a questa sua creatura. Mai ella ha sentito come lo sente in questo stato la dolcezza e la profondità, che contengono varie sentenze della Scrittura santa. Di queste, una la sarebbe: “L’amore è forte al par della morte, e duro al par dell’inferno”. Questa creatura sente assai al vivo di essere ferita da uno strale, che non può essere e né può provenire da altra creatura, anche la più nobile. Alla poverina assai duramente le riesce il tirarsi dietro la catena della sua prigionia; ella conosce di essere assai duramente inchiodata in questo suo divino inferno. Primo ed ultimo affetto che sorge in cuore a questa infelicissima creatura, allorquando ritorna alla coscienza della vita, è un vivo rammarico di essere viatrice, è un atrocissimo tormento di non esser morta in prove sofferte per lo innanzi. Dopo aver la poverina tanto sospirato il momento della sua dipartita, dopo di esser giunta più volte là sul limitare della vita, dopo di aver assaporate le dolcezze della morte e soffertane tutta la lotta e tutto il tormento, proveniente dalla natura che reclamava i suoi diritti, dopo ch’ella uscì fuori di sé, fino a perdere di vista il mondo di qua, dopo che la poverina ebbe quasi toccato col dito le porte della Gerusalemme celeste, il ridestarsi tuttora in questo luogo di esilio, ripiombando nella condizione di viatore che sempre può perdersi, l’è per fermo una nuova specie di agonia più dura assai della stessa morte e di qualsiasi genere di martirio.

Ahimè!, padre mio, quanta è dura questa vita mortale; finché ella dura, l’eterna è sempre incerta! Oh vita crudele, nemica del mio amore, che ci ama infinitamente più di quello che noi possiamo amarlo, conoscerlo, oh! perché non ci è dato di finirti? Oh vita, che per sì fatta creatura non sei più vita, ella ti sopporta in pace, perché Dio ti sopporta; si prende cura di te, perché sei dono suo; ma tu almeno non voler fare con questo poverino la traditrice e l’ingrata! Padre mio, chi è più misero di questa creatura? Ella sente il suo libero arbitrio, schiavo infelice della sua libertà, è strettamente legato alla catena dal timore e dall’amore di quel Dio che la creò; ma non le basta, ella vorrebbe sentirsi stretta a lui da un altro amore, che non potrà realizzarsi in questo basso mondo. Ella vorrebbe entrare presto in quell’eterno riposo per sempre vivere perduta in quell’oceano immenso di bontà, per conoscere solo ciò che egli ama e per godere di quello onde è beato egli stesso”.

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